Il distopico lunedì di New York
Ci sono stati in contemporanea il Met Gala, il processo di Trump e le proteste per il popolo palestinese
Buongiorno!
sono Benedetta e questa è Quarantasette, la newsletter di Generazione sulla campagna elettorale americana. Alle prossime elezioni presidenziali mancano 180 giorni.
Lunedì notte si è svolto il Met Gala, l’evento di raccolta fondi per il Costume Institute del Metropolitan Museum of Art di New York. Ogni anno, il primo lunedì di maggio, attori e attrici, cantanti e musicisti, sportivi, modelle e modelli, ballerini e persone del mondo dello spettacolo, vengono scelti dalle principali case di moda internazionali per essere vestiti e partecipare alla serata secondo un tema selezionato e curato da Vogue. Sempre lunedì notte, è iniziato l’attacco israeliano a Rafah, come annunciato dal primo ministro Netanyahu. È saltato agli occhi di più o meno tutti, che un evento così mondano - svolto in contemporanea ad un massacro senza precedenti - fosse distopico e spaventoso e forse, come hanno supposto alcuni, anche intenzionale.
Iniziamo.
Nell’ultima settimana le proteste organizzate dagli studenti americani non si sono fermate. Dopo lo sgombero violento dell’edificio Hamilton Hall, occupato alla Columbia, diversi college hanno organizzato mobilitazioni dello stesso tipo - anch’esse represse dalla polizia. Sembra, però, che questo movimento collettivo e simultaneo abbia fatto parecchio colpo sul resto dei cittadini, ma anche dei media e dell’opinione pubblica in generale: sono giorni che non si parla di altro, sebbene altro ci sia.
Secondo CNN, dal 18 aprile sono stati arrestate 2.000 persone sui campus universitari, soprattuto nell’ambito delle proteste più partecipate: quella della Columbia e quella della UCLA, l’università di Los Angeles. Nonostante ogni istituto sia diverso, le richieste sono più o meno le stesse e cioè di interrompere i rapporti accademici ed economici con Israele. Richieste del genere non sono nuove neppure in Italia, era il 9 novembre quando gli studenti dell’università “L’Orientale” di Napoli ci raccontavano le ragioni della loro occupazione, tra cui la richiesta al Rettore Tottoli di interrompere le collaborazioni con Israele e con l’azienda Leonardo S.p.A.
Il 2 maggio, il Presidente Biden è intervenuto in conferenza stampa per commentare la situazione di agitazione nei college del paese. Ha detto che prima di partire per il North Carolina - dove sta concentrando la sua campagna elettorale in quanto un quasi swing-state (cos’è uno swing-state? ne parlavamo qui) - voleva dedicare qualche parola agli studenti. Ha detto: «non siamo una nazione autoritaria che zittisce le persone o sopprime il dissenso. Il popolo americano è ascoltato. Infatti, le proteste pacifiche sono la migliore tradizione di come gli americani rispondono alle questioni sociali. Ma - non siamo neanche un paese senza leggi. Siamo una società civile, e l’ordine deve prevalere». Ha poi continuato su questa linea, facendo intendere che non apprezza e non comprende la radicalità delle occupazioni. Ha aggiunto: «vedete, è una questione di giustizia. È una questione di ciò che è corretto. C’è il diritto di protestare ma non il diritto di creare caos. Le persone hanno diritto a ricevere un’educazione, di laurearsi, di camminare nel campus in modo sicuro senza temere di essere attaccati». Si riferisce, evidentemente, alle lamentele di alcuni studenti ebrei che nei giorni scorsi - durante le occupazioni - hanno lamentato di non sentirsi sicuri e di sentirsi respinti dalla propria università, ne parlavamo qui. L’intero discorso di Biden, invece, si può leggere qui.
Intanto, ieri sera si è svolto il Met Gala. L’evento è iniziato alle 17 negli Stati Uniti (mezzanotte da noi) e già alle 18 la zona del Metropolitan Museum of Art era praticamente circondata da manifestanti pro-Palestina. Nonostante le strade limitrofe fossero chiuse con numerose barricate, il corteo le ha oltrepassate, arrivando a scontrarsi direttamente con la polizia, che tentava di bloccare il loro passaggio. Come riporta il Guardian, il contenimento delle proteste è stato complesso perché molta della polizia di New York era impegnata davanti e dentro il MET, per evitare che i fan delle celebrità presenti riuscissero a raggiungere l’evento.
Secondo il Time, i manifestanti avrebbero portato con se dei fumogeni, che hanno tentato di lanciare all’ingresso del museo. Qui c’è un video della marcia verso il Met. Il tema della serata di quest’anno era “The Garden of Time” e prendeva ispirazione da un racconto breve dello scrittore inglese J.G. Ballard, e che - dice il Washington Post - «parla di un conte e una contessa molto ricchi, che si chiudono nella loro opulenza mentre una folla li raggiunge». Guarda te il caso.
Nel frattempo, poco distante dal Met e dalle proteste, al centro di New York, l’ex presidente Donald Trump iniziava il suo processo per il caso Stormy Daniels, di cui parlavamo qua e qua.
Lunedì mattina, poche ore prima della grande sfilata, il giudice della Corte Suprema di New York Juan Merchan ha detto che Donald Trump ha violato il “gag order” per la decima volta. Il gag order, che potremmo tradurre come “ordine di silenzio” o “bavaglio”, è una regola che i giudici possono imporre alle persone coinvolte nei casi che stanno giudicando, perché evitino di parlarne in pubblico e commentare quello che succede. L’obiettivo è evitare che vengano diffuse informazioni sensibili, ma anche che - come nel caso di Donald Trump - l’opinione pubblica possa essere coinvolta in ciò che accade in tribunale, creando discussioni che possono influenzare il lavoro di tutte le persone coinvolte.
Sono stati tre i giudici che hanno imposto dei gag orders a Trump. La ragione allegata dal giudice Merchan all’imposizione del silenzio, è stata che «le precedenti dichiarazioni extragiudiziali hanno stabilito un rischio già elevato per l’amministrazione della giustizia». Nello specifico, Trump non può parlare dei pubblici ministeri che lavorano al caso, ne dei membri delle loro famiglie. Non può nominare o parlare dello staff del tribunale o delle loro famiglie, come non può dire nulla su Merchan o Alvin Bragg, l’avvocato del distretto di Manhattan. Tuttavia, ha il permesso di parlare di Bragg e Merchan sui social o nei discorsi pubblici della sua campagna elettorale.
Inizialmente, il giudice Merchan non aveva vietato a Trump di parlare di se o della propria famiglia, ma è stato obbligato a prendere questa decisione quando l’ex presidente ha iniziato una campagna diffamatoria sui social nei confronti di sua figlia.
Lunedì, quindi, Merchan ha detto che Trump ha violato i suoi gag orders per ben dieci volte. Il caso più recente risale al 22 aprile, quando ha criticato il giudice durante un’intervista con Real America’s Voice, dove ha detto: «sapete, sta velocizzando il processo come un pazzo. Nessuno ha mai visto una roba del genere. La giuria è stata scelta molto velocemente - e il 95% sono Democratici. L’area [geografia di Manhattan, da cui sono scelti i giudici popolari, ndr] è soprattutto composta da Democratici. È una situazione davvero ingiusta, questo è quel che posso dirvi». Merchan ha commentato dicendo che Trump «non solo ha messo in dubbio l’integrità e quindi la legittimità dei procedimenti giuridici, ma ha di nuovo sollevato uno spettro di paura per la sicurezza dei giudici e dei loro cari».
Merchan ha multato Trump di $1000 per ogni violazione compiuta, ed è il massimo che può imporgli. Dunque, ad oggi, deve pagare un totale di $10,000. Il giudice ha annotato nella sua sentenza che Trump è un uomo benestante e che $1,000 non lo dissuaderanno dal violare di nuovo il gag order. Ha detto «sarebbe preferibile che la Corte potesse imporre una multa più commisurata alla sua ricchezza». Siccome, ovviamente, Merchan non ha potere sul valore delle multe che può imporre, ha detto «il carcere potrebbe essere una punizione necessaria» - minaccia che ha poi ripetuto anche lunedì. E poi ha continuato, davanti a Trump: «l’ultima cosa che voglio fare è metterti in galera. Sei l’ex presidente degli Stati Uniti e possibilmente anche il prossimo».
Sembrerebbe che l’unica cosa che spaventa Trump è l’idea di non riuscire a diventare di nuovo presidente. Siccome nessuna regola formale o già testata in passato lo allontana concretamente dalla possibilità di essere rimosso dalla corsa elettorale - nonostante le accuse a suo carico - a separarlo dall’elezione ci sono solo un mucchio di voti e l’ipotesi che possa finire in galera.
Cose che ho letto-visto-ascoltato questa settimana:
The Politics of Fear Itself, The Atlantic
Donald Trump rischia il carcere per oltraggio al tribunale di New York - Internazionale
Grazie per aver letto questo numero di Quarantasette. Noi ci sentiamo mercoledì prossimo.