Un nuovo Sessantotto, stavolta davvero
un numero sulle proteste studentesche per la liberazione della Palestina
Buongiorno!
sono Benedetta e questa è Quarantasette, la newsletter di Generazione sulla campagna elettorale americana. Alle prossime elezioni presidenziali mancano 186 giorni.
Avrei voluto dedicare questo numero di Quarantasette alla giornata di oggi, raccontandovi come i due candidati alle prossime elezioni presidenziali stanno trattando il tema del lavoro nella loro campagna elettorale.
Abbastanza bruscamente, questa prima ipotesi è stata spodestata dalle proteste attualmente in corso in alcuni dei college ivy league degli Stati Uniti, vale a dire quelli più importanti e in cui è più difficile accedere. Dedichiamo questo numero a capire cosa succede, al perché qualcuno paragona queste rivolte a quelle organizzate durante la guerra del Vietnam e perché ci sono così tanti arresti.
Iniziamo.
Le università ivy league sono otto e sono le più prestigiose degli Stati Uniti, tutte private. Il college, tra questi otto, che ha il patrimonio più basso è la Brown - con 2,01 miliardi di dollari. Mentre quello più alto lo ha Harvard, con 28,8 miliardi di dollari. Le altre scuole sono la Columbia University con sede a New York, l’università di Cornell a Ithaca (Stato di New York), il Dartmouth College in New Hampshire, l’università di Princeton in New Jersey, l’Università della Pennsylvania in Pennsylvania e Yale, in Connecticut.
Da circa sei mesi a Yale, alla Columbia University, alla New York University e al MIT - il Massachusetts Institute of Technology, una delle più importanti università di ricerca di tutto il mondo - gli studenti stanno portando avanti delle manifestazioni organizzate contro l’occupazione della Palestina e la guerra a Gaza, ma anche - al contrario - in favore di Israele e del suo diritto di autodifesa, circostanza che sta creando non pochi episodi di scontro. Lunedì 22 la polizia ha arrestato decine di persone a Yale, che da diversi giorni stavano manifestando. Secondo la ricostruzione del giornale dell’università - lo Yale Daily News - poco dopo le 6 del mattino diversi agenti sarebbero arrivati davanti al college, dove erano radunati i manifestanti. La polizia ha arrestato tutte le persone che si sono rifiutate di liberare la piazza, accusandole di invasione di proprietà privata e di una serie di altri reati minori di “classe A”, che potrebbero procurargli una pena detentiva di massimo un anno. Sempre secondo il giornale universitario, alle 7:52 del mattino la piazza era ormai libera e tutti i manifestanti arrestati. La polizia ha anche indicato ai servizi di pulizia e ordine del college di liberare il piazzale dalle tende, dai volantini dei manifestanti e di pulire i muri dalle loro scritte.
Lo stesso giorno sono state arrestate decine di persone anche nella zona di Manhattan, a New York, dove ha sede la NYU - New York University. Secondo un portavoce dell’università, circa 50 studenti stavano protestando «senza autorizzazione», bloccando l’accesso all’università e non permettendo agli studenti di accedere, in uno di quelli che noi chiameremmo “picchetto”. Nello stesso momento, alla Columbia University - quindi sempre a New York - sono state cancellate tutte le lezioni in presenza. Alla Columbia le proteste erano state fatte rientrare forzatamente la settimana precedente, quando la polizia ha arrestato più di 100 studenti che si erano accampati nel cortile dell’università, in tenda. In questo caso, a chiamare la polizia era stata la rettrice Nemat Shafik, che ha poi inviato una mail a tutti gli studenti per chiarire la posizione presa con il consiglio universitario, dicendo che le proteste erano «un chiaro e attuale pericolo per il regolare funzionamento dell’università». Gli accampamenti in cui si svolgono le proteste hanno preso il nome di “Gaza solidarity encampment”, organizzati dal gruppo studentesco Columbia University Apartheid Divest (letteralmente, coloro che smascherano l’apartheid della Columbia University).
Questo stesso gruppo, al momento dell’inizio delle proteste, ha espresso delle richieste che potete leggere qui. In breve: domandano che la Columbia interrompa i finanziamenti e i rapporti con tutte le aziende e le istituzioni che guadagnano dall’apartheid israeliana, dal genocidio e l’occupazione della Palestina. Domandano anche trasparenza negli investimenti che vengono effettuati. Chiedono vengano interrotti i rapporti accademici con Israele, citando il programma di doppio titolo universitario che la Columbia intrattiene con l’Università di Tel Aviv. Chiedono anche di interrompere il controllo militarizzato del campus: da quando sono iniziate le proteste, la polizia di New York è quasi costantemente presente nelle aree dell’università, facendo controlli che il collettivo definisce “mirati” nei confronti degli studenti palestinesi. Pochi giorni dopo gli arresti la comunità accademica della Columbia si è attivata in solidarietà dei propri studenti arrestati e minacciati.
Le proteste alla Columbia sono quelle che hanno suscitato più dibattito. Il presidente Joe Biden ha detto che si sarebbero verificati episodi di antisemitismo contro alcuni studenti ebrei. La Columbia è notoriamente frequentata da molti studenti di origine ebraica, che dal momento in cui sono iniziate le proteste si sono detti spaventati dalla possibilità di ricevere attacchi antisemiti. Gli organizzatori delle manifestazioni hanno risposto dicendo che proprio tra coloro che hanno ideato il movimento sono presenti degli studenti ebrei, come anche tra quelli che sono stati arrestati.
Durante la settimana appena conclusa le proteste sono aumentate. A Los Angeles, all’Università della California del Sud (USC), sono state arrestate 93 persone con le stesse accuse mosse agli studenti di Yale. All’Emerson College di Boston sono state arrestate 108 persone, altre 34 a Austin, all’Università del Texas. Il totale delle università in cui si è protestato questa settimana sono 15, un numero che con buone probabilità continuerà a crescere rapidamente.
Lunedì 29, la Columbia ha iniziato a prendere dei provvedimenti interni nei confronti degli studenti che prendono parte alle proteste. Ormai sono passate due settimane da quando sono state piantate le prime tende e gli interventi degli agenti non sono risultati sufficienti a disperdere i manifestanti. L’amministrazione, quindi, ha iniziato a sospendere chi non abbandona la protesta. Concretamente, una sospensione limita l’accesso all’università e ha - ovviamente - conseguenze nella carriera accademica dei singoli. Gli organizzatori delle proteste erano da giorni in trattativa con l’università, ma l’impossibilità di ottenere un accordo ha portato l’amministrazione a scrivere un comunicato in cui dava tempo agli studenti fino alle ore 14 di lunedì per interrompere le proteste e liberare il campus. Tutti quelli che non l’avrebbero fatto, dice il comunicato, sarebbero stati sospesi. Gli altri avrebbero potuto continuare a frequentare l’università dichiarando di non impegnarsi di nuovo in movimenti simili. I portavoce delle proteste hanno detto che non rinunceranno a ciò che stanno facendo, dovranno essere costretti con la forza. La lettera dell’amministrazione, invece, l’avete sicuramente vista online.
Nella notte tra lunedì e martedì, nonostante le sospensioni minacciate, i manifestanti della Columbia sono entrati negli edifici dell’università. Hanno occupato l’Hamilton Hall, uno dei più importanti plessi di tutto il campus, dopo aver fatto una breve marcia negli spazi esterni. Ieri mattina l’amministrazione universitaria ha confermato l’occupazione: se aprite il sito, cliccando qui, uscirà un ban che avvisa della chiusura di alcuni spazi.
L’occupazione è avvenuta verso mezzanotte e mezza, da parte di alcuni studenti che hanno fatto irruzione a volto coperto. Fuori dall’edificio, barricato dall’interno, è stato appeso uno striscione con la scritta “Hind’s Hall”, per omaggiare Hind Rajab, una bambina palestinese uccisa a Gaza. Alcuni studenti anonimi che hanno parlato a POLITICO hanno detto che non libereranno l’edificio finché l’università non risponderà a tutte le loro richieste e che gli occupanti sarebbero «una decina».
Nelle ultime ore si stanno rincorrendo continue notizie sugli arresti nei campus universitari di moltissime città, per cui è quasi difficile stargli dietro. In Arizona, però, è successa una cosa abbastanza grave: durante gli arresti all’Arizona State University, alcuni agenti hanno tolto l’hijab a delle manifestanti, almeno quattro. Il video si può vedere qui.
Nemat Shafik, rettrice della Columbia, ha origini egiziane ed è musulmana. Come dicevamo, è stata proprio lei a chiedere alle forze dell’ordine che il campus venisse sgomberato, facendo specifico riferimento all’accampamento degli studenti. Il suo provvedimento è arrivato dopo che il Congresso l’ha convocata per un’audizione a proposito del contrasto all’antisemitismo all’interno dell’università.
Shafik non è stata l’unica rettrice ad essere chiamata, il Congresso nei mesi scorsi ha anche convocato la rettrice di Harvard e della Penn State. Entrambe si sono poi dimesse per aver subito le pressioni della comunità ebraica del paese, secondo cui non avevano preso posizioni sufficientemente dure contro gli episodi di antisemitismo nelle loro università.
Claudine Gay, ex rettrice di Harvard, ha annunciato le sue dimissioni attraverso una lettera, poco dopo che il dipartimento dell’Istruzione aveva avviato indagini in più di venti università. Tutte e tre le rettrici convocate hanno evitato di rispondere ad una domanda rivolta dal Congresso, che domandava loro se considerare ciò che sta accadendo a Gaza un “genocidio” fosse o no una violazione dei codici di condotta delle loro università.
Lo dicevamo, gli studenti della Columbia hanno occupato il noto edificio Hamilton Hall, ma non è la prima volta. Fu occupato anche durante le proteste studentesche del 1968, organizzate contro la guerra in Vietnam e le politiche razziste e discriminatorie contro la comunità afroamericana della Columbia. Gli studenti, come anche pochi giorni fa, si barricarono nell’edificio, impedendo al preside di uscire dal proprio ufficio.
Frank Guridy, professore di storia alla Columbia, tiene un corso sulle proteste che nel 1968 presero piede proprio lì. In un’intervista a NPR, ha detto: «c’è una somiglianza misteriosa tra i giorni nostri e quello che è successo in questo paese negli anni Sessanta, dove gli studenti americani erano motivati a parlare e mobilitarsi contro ciò che consideravano e vedevano come ingiusto in Vietnam». I due movimenti studenteschi sono accomunati anche dalla richiesta alle amministrazioni universitarie di interrompere gli investimenti nell’industria di difesa o di qualsiasi cosa fosse connesso alla guerra del Vietnam e oggi a quella a Gaza. Guridy ha aggiunto che: «gli studenti su questo campus sono di una generazione che non ha connessioni dirette con il ‘68, ma risulta comunque prendere ispirazione da lì».
Nel comunicato degli studenti della Columbia loro stessi hanno scritto di rappresentare «la generazione dopo quella del 1968, 1985 e 1992, i cui movimenti studenteschi alla Columbia erano repressi, mentre oggi sono celebrati», riferendosi anche al corso tenuto da Guridy.
È successa una cosa abbastanza impressionante, completamente figlia di questo tempo qui. Con rapidità, forse in tempo reale, i palestinesi bloccati a Gaza - specialmente nella zona di Rafah - sono stati informati delle proteste degli studenti statunitensi, e hanno deciso di mostrare la loro riconoscenza e solidarietà.
Per quanto opportuno sia paragonare questo movimento studentesco a quello del Sessantotto, è evidente che questo conflitto viaggia ad una velocità diversa, e proprio in virtù di questa è possibile conoscere con accuratezza ciò che accade, al di là della propaganda. Che i palestinesi bloccati nella Striscia ricevano il messaggio di chi protesta per loro e decidano di ringraziarli - creando un legame che ha un valore politico, emotivo, geografico e sociale - fa fare, paradossalmente, un passo in più verso il mondo che alcuni immaginano sia auspicabile. Pure io
Cose che ho letto-visto-ascoltato questa settimana:
Oggi è la festa dei lavoratori in Italia, negli Stati Uniti si festeggia invece il 2 settembre. Per sentir parlare di lavoro e america c’è un bel documentario su Netflix, prodotto e narrato da Barack Obama. Si chiama “Working - lavorare e vivere”. È molto bello, qui c’è un trailer
Grazie per aver letto questo numero di Quarantasette. Noi ci sentiamo mercoledì prossimo.