La Corte Suprema è proprio gentile!
C'è un verdetto che consente a Trump di appellarsi all'immunità presidenziale, ma non completamente
Buongiorno!
sono Benedetta e questa è Quarantasette, la newsletter di Generazione sulla campagna elettorale americana. Alle prossime elezioni presidenziali mancano 124 giorni.
Sono passati solo pochi giorni dal disastroso dibattito presidenziale, ma ci sono già importanti novità. L’ex presidente Donald Trump ha ricevuto il suo verdetto rispetto alla possibilità di appellarsi all’immunità presidenziale, in riferimento ai suoi numerosi casi giudiziari aperti.
Biden, invece, è sballottolato da una parte e dall’altra per provare a capire cosa fare: nulla, probabilmente.
Iniziamo.
A febbraio gli avvocati di Donald Trump hanno chiesto alla Corte Suprema degli Stati Uniti di decidere se gli ex presidenti possono essere processati per gli atti compiuti in via ufficiale. Più nello specifico, la richiesta di esprimersi è giunta alla Corte nell’ambito del processo sui risultati elettorali del 2020, che Trump avrebbe tentato di sovvertire.
La Corte ha deciso che Trump è immune dal ricevere accuse di valore penale rispetto ad azioni e decisioni che ha preso come Presidente. Nello specifico, non può essere giudicato per tutto quello che ha fatto nel 2020 per impedire l’elezione di Biden, in un momento di passaggio in cui, però, era ancora il Presidente degli Stati Uniti. Tra le accuse di cui si è liberato con questa decisione c’è una delle più gravi che gli siano mai state fatte: aver strumentalizzato il Dipartimento di Giustizia per amplificare e diffondere false affermazioni rispetto alla frode elettorale.
Nonostante si tratti di una decisione piuttosto netta, che segna un punto fondamentale in questa campagna elettorale e per il futuro della presidenza statunitense, c’è in realtà molto di irrisolto e poco chiaro. Adesso, comprendere quali siano gli atti ufficiali e quali invece no, è compito della giudice distrettuale Tanya Chutkan, titolare del caso alla Corte di Washington. Dovrà comprendere quali delle accuse di Trump siano classificabili come atti privati e quali, invece, sono considerabili atti presidenziali o compiuti in virtù del proprio ruolo.
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Con grande probabilità, le decisioni di Chutkan non verranno prese prima delle elezioni presidenziali di novembre, allungando di molto il processo.
La più grande sfida di Chutkan sarà capire e decidere se le interazioni tra Trump e il vice-Presidente Mike Pence siano da considerare “ufficiali”. Quelle che genericamente vengono chiamate interazioni, sono in realtà delle vere e proprie pressioni che Trump ha fatto al suo vice, nel tentativo di rallentare o evitare completamente che Pence certificasse il risultato elettorale. Questa accusa, tra l’altro, rientra tra le varie cose problematiche che Trump ha fatto per incitare i propri sostenitori a protestare, risultando poi nell’attacco a Capitol Hill, il 6 gennaio 2021.
John G. Roberts, Presidente della Corte Suprema dal 2005, ha detto che la decisione presa non si riferisce unicamente a Donald Trump e non è presa ragionando sulle accuse che sono a suo carico in questo momento. Ha detto: «l’immunità si applica equamente a tutti gli occupanti dell’ufficio ovale, indipendentemente dalla politica, le loro credenze o il loro partito». Sonia Sotomayor, Elena Kagan e Ketanji Brown Jackson, anche loro giudici coinvolte nel voto, non hanno fatto mistero della loro opinione e hanno detto: «la maggioranza della Corte che ha votato a favore di questo verdetto ha un progetto che avrà conseguenze disastrose per la Presidenza e per la nostra democrazia».
Donald Trump, invece, ha commentato la decisione scrivendo su Truth, il suo social network: «una grande vittoria per la nostra Costituzione e democrazia, sono fiero di essere americano!».
Nonostante Trump non abbia ottenuto l’immunità assoluta che sperava di ricevere, la decisione presa dalla Corte è politicamente a suo favore e lui, possibilmente, ha ottenuto più di quel che in molti prevedevano. Oltre ad aver deciso che Trump può godere di immunità in alcuni casi, la Corte ha anche detto che molte delle cose compiute dall’ex presidente non possono neppure essere prese in esame come prove. Le sue interazioni con il Dipartimento di Giustizia, per esempio, non possono essere utilizzate per stabilire se stesse cospirando contro il risultato elettorale.
Oltre a Trump è importante comprendere le conseguenze di questa decisione per i futuri presidenti e i futuri ex-presidenti. Sempre secondo la giudice Sotomayor, adesso il confine tra azioni criminali rese legittime per via della posizione di chi le ha compiute è molto più labile. Ha scritto: «ordini alla Marina Militare di assassinare un rivale politico? immune», «organizzi un colpo militare per rimanere al potere? immune. Raccogli tangenti per esercitare il tuo potere di grazia? immune. Immune, immune, immune». E ancora: «la relazione tra il Presidente e il popolo che serve è cambiata drasticamente. In ogni modo possibile, ora il Presidente è un re sopra la legge».
Questa decisione, ovviamente, ha creato non poco scompiglio all’interno del Partito Democratico. Prima c’è stato il tremendo dibattito presidenziale, che ha fatto apparire per circa un’ora e mezza Donald Trump come un intellettuale di spicco, poi la decisione della Corte Suprema. È chiaro che in questa situazione sia diventato ancora più importante decidere se Biden sarà ancora il candidato del Partito, cosa che sembra non essere più definitiva.
Per la prima volta, ieri, un membro del Congresso appartenente al Partito Democratico ha rilasciato un commento sulla candidatura di Biden. Il rappresentante Lloyd Doggett ha detto: «anziché rassicurare gli elettori, il Presidente non è riuscito neanche a difendere i suoi tanti traguardi, rivelando le bugie di Trump. Ci sono troppe cose che mettiamo a rischio con la vittoria di Trump. Il Presidente Biden ha salvato la democrazia non consegnandoci a Trump nel 2020. Deve riuscire a non consegnarci a Trump anche nel 2024», poi ha aggiunto «sono fiducioso che riusciremo a prendere la dolorosa e difficile decisione di ritirare (la candidatura di Biden, ndr). Gli chiedo rispettosamente di farlo».
La voce di Doggett, tra tutti i democratici con qualche ruolo di spicco, è sostanzialmente unica. Gli altri membri del partito stanno offrendo a Biden il loro supporto e sostegno, senza domandare alcun passo indietro rispetto alla sua candidatura e provando - nella maggior parte dei casi - a convincere gli elettori democratici che il Presidente sia ancora la scelta giusta. Fuori dal Congresso le cose sono un po’ più caotiche: l’ex membro del Congresso Tim Ryan, che nelle elezioni primarie democratiche del 2020 ha corso contro Biden, ha detto: «Biden ha promesso di essere un Presidente “ponte” verso la nuova generazione. Purtroppo, quel ponte è crollato la scorsa settimana». Poi ha aggiunto che secondo lui sarebbe meglio «strappare questo cerotto» e avere il coraggio di indicare la vice-presidente Kamala Harris come candidata del Partito.
L’ex Presidente Barack Obama, che ha per la prima volta portato Biden alla Casa Bianca scegliendolo come proprio vice in entrambi i mandati che ha guidato, ha scritto su X: «i brutti dibattiti capitano. Fidatevi di me, lo so. Ma in questa elezione c’è la possibilità di scegliere tra qualcuno che ha lottato per le persone normali tutta la sua vita e qualcuno che è interessato solo a se stesso. Tra qualcuno che dice la verità; che sa distinguere il giusto dallo sbagliato e che dirà le cose come stanno al popolo americano - e qualcuno che dice le cose tra i denti per il proprio guadagno. La scorsa serata non ha cambiato questa cosa, ed è per questo che mettiamo in discussione così tante cose a novembre».
Nancy Pelosi, ex speaker della Camera e membro del Partito Democratico, ha detto che le preoccupazioni intorno alle capacità fisiche del Presidente Biden sono «questioni legittime». Ha detto: «penso sia legittimo farsi delle domande, è un episodio o è una condizione? quando le persone fanno questa domanda è completamente legittimo - in riferimento ad entrambi i candidati». Il contributo di Pelosi è tra i più autorevoli all’interno del Partito, sicuramente più di quello di Doggett. La sensazione è che i democratici non abbiano davvero una linea comune, che per ora sia in ballo ogni opzione: Biden dice una cosa e le persone che lo circondano sembrano invece considerare la possibilità di attraversare molte più porte di quelle apparentemente aperte.
A dare manforte ai dubbi e alle strade nuove, ci si sono messi anche i giornali. Il New York Times è stato tra i primi a proporre un’opinione radicale, con un articolo dal titolo: «Per servire il suo Paese, il Presidente Biden dovrebbe lasciare la corsa» e ancora «Presidente Biden, ho visto abbastanza». Anche il Washington Post sembra essere di questo stesso avviso, avendo pubblicato diversi editoriali davvero poco ambigui, tipo questo:
Negli Stati Uniti il giornalismo è un po’ diverso, oltre che tecnicamente anche dal punto di vista della ricezione. Davvero le persone prendono come riferimento alcune testate e davvero queste - con i suoi autori - hanno un ruolo nel discorso pubblico e nel dibattito, specialmente nei momenti critici. Talmente sono capaci di questo, che gli editoriali e i loro autori - i cosiddetti “columnist” - possono arrivare sulle scrivanie dei Presidenti che li conoscono, sanno i loro orientamenti e prendono in considerazione la dose di potere che posseggono.
Su Quarantasette prendiamo spesso in considerazione cosa scrivono questi giornali, anche negli ultimi numeri. Continueremo a farlo nel prossimo, monitorando come - anche per i cronisti - si evolveranno le cose.
Cose che ho letto-visto-ascoltato questa settimana:
Per leggere il commento della Corte Suprema, completo e in inglese
Per seguire le prossime elezioni presidenziali, continuo a consigliare: il podcast “Elettorale Americana”, de Il Manifesto; la newsletter “Americana” di Internazionale, edita da Alessio Marchionna e la rubrica settimanale di DinamoPress “Usa al bivio”, di Luca Celada.
Grazie per aver letto questo numero di Quarantasette. Noi ci sentiamo mercoledì prossimo.